una storia, una notizia, o qualunque cosa valga la pena di essere raccontata



venerdì 21 agosto 2015

William Poths e i pionieri del Calcio a Napoli

TRATTO DA: -Federico Quagliuolo http://storienapoli.it/

Il porto di Napoli, conservando la sua tradizione millenaria, nei primi del ‘900 era fra i più attivi e ricchi in Europa ed intratteneva numerosi scambi commerciali con ricchi imprenditori inglesi, che avevano le loro sedi legali a Via Marina e dintorni. A Porta di Massa, in un ufficetto della ricchissima linea di crociere Cunard Lines, lavorava un umile impiegato, tale William Poths, che nel 1903 convocò alcuni amici in un momento di noia, proponendo loro un gioco: perché non organizzare una partitella a football fra amici, il gioco che sta spopolando in Inghilterra? “Basta una palla, le regole sono facili!” 
William Poths


Un ritaglio di giornale del 1905 che racconta gli episodi di una partita: 
"Le due schiere di giocatori, ciascuna delle quali forte di dieci baldi giovani, hanno dimostrata somma valentia in questo difficile giuoco che consiste nel ricacciare mediante colpi, dati per lo più con i piedi, una palla nella porta (vano) del campo avversario. La partita è durata per più di due ore,interrotta soltanto di quattro riposi di pochi minuti ognuno; e sarà continuata in altro giorno, da stabilirsi, per la gara decisiva." 

La sera stessa, stanchi dopo una giornata a smistar carte e spostare casse sulle navi, dieci impiegati invasero la pizzeria di Guglielmo Matacena a Vico Sanseverino: una strana accozzaglia di inglesi, svizzeri, olandesi ed italiani che, con accenti storpiati, stracci cuciti sui pantaloni e pochi soldi in tasca, per la prima volta parlarono nella lingua più conosciuta al mondo, quella del pallone. Con il vigore e la convinzione di un giocatore consumato, Poths tenne un lungo monologo raccontando regole e storia del calcio inglese, mentre al tavolo sedeva sorridente un tal Mario Bayron, un ex calciatore del Genoa, che raccontò agli amici le sue meravigliose esperienze nel neonato Genoa Football. E, come nel più inaspettato cliché, calcio, mare e pizza si unirono per dare origine alla prima squadra della città di Napoli, con un pizzico di Genova. Il giorno dopo, quasi come se fosse stato un duello fra uomini d’onore, si ritrovarono una decina fra straccioni e ricchi impiegati in un campetto in terra battuta e pieno di sterpaglie nel luogo più malfamato di Napoli, il Mandracchio. Dopo il primo calcio al primo pallone nella storia di Napoli, in campo i giocatori perdevano identità: il manovale passava il pallone all’operaio, lo scribacchino parava il tiro al marinaio inglese che, vedendo i suoi compagni giocare a football, interveniva nella partitella: i partecipanti diventarono sempre più numerosi e tutti erano ammessi al gioco. Era nato il Naples Football and Cricket Club e la prima partita “internazionale” fu giocata contro i marinai inglesi della nave Arabik. Anche il popolino trovò interessante quello strano spettacolo così democratico: dopo le prime risate di qualche ubriacone, le donne iniziarono ad urlare scandalizzate nel vedere che uomini a torso nudo urlavano in un campetto di sterpaglie rincorrendo un qualche oggetto che riuscisse a rotolare. Così, il primo pubblico fu proprio quello dei contestatori: cominciarono a volare gli sputi, le battute e la frutta marcia sui giocatori che, pur di non rinunciare al loro passatempo, decisero di spostarsi. Quasi come una sorta di Fight Club del pallone, i marinai furono costretti ad abbandonare il campetto del Mandracchio e si trasferirono a Capodichino, in un luogo abbandonato che i Borbone utilizzavano per le parate militari, il Campo di Marte che, qualche anno dopo, diventò l’Aeroporto. Dopo una iniziale diffidenza, il football conquistò tutti: iniziarono a nascere in ogni luogo della città campetti da calcio, con porte di fortuna e giocatori improvvisati: dai ragazzini ai nuotatori ai professionisti, il terreno d’incontro preferito diventò la Pignasecca e cominciarono a sorgere come funghi decine di squadre cittadine, fra cui la Juventus (di Napoli!), il Savoia, la Puteolana 1909 e la Internazionale (che nacque proprio da soci dissidenti della Naples Footbal). Le partite cominciarono a giocarsi regolarmente, in veri e propri tornei, tutte disputate in un campetto di sterpaglie ad Agnano: i posti a sedere costavano 50 centesimi e servivano a pagare le maglie ed i palloni. Così, come passatempo, i giovani nobili della città, pagavano con piacere il prezzo per assistere allo spettacolo. La prima rosa ufficiale fu composta da: Kock, Garozzo, Del Pezzo, Little, Steinegger, Marin, Scarfoglio, McPherson, Chaudorir, Poths, Ostermann. La maglia ufficiale era a strisce verticali celesti e azzurre, colori che, poi, sono rimasti sempre sulla maglia ufficiale del Napoli. Fra gli spettatori più illustri ci fu il il ricchissimo imprenditore Thomas Lipton (sì, proprio il fondatore della Lipton) che, desideroso di creare per la prima volta un torneo di squadre del Sud, decise di inaugurare la Lipton Cup. Fu il primo torneo con un premio in denaro, in cui si sfidavano ogni anno in finale il Naples ed il Palermo.  


Arrivò poi il Fascismo ed il calcio era ormai un fenomeno di costume in tutta Italia, tanto da richiedere una regolamentazione da un regime che faceva dello sport uno dei suoi vanti: fu la Carta di Viareggio del 1926 a disciplinare, per la prima volta nella storia, il campionato di calcio italiano, unificando i campionati di Nord e Sud. Fu ordinato, inoltre, di unire tutte le squadre della città, per formare rappresentative con i migliori giocatori. Così, dal 1926 in poi, la storia della SSC Napoli fu puro amore. 

 -Federico Quagliuolo http://storienapoli.it/


 P.S. una piccola curiosità: il portiere del Naples Football era solito portare con sé una sedia, che metteva all’interno della porta. Quando la squadra attaccava, lui si riposava. Le partite, infatti ,potevano durare anche tre ore.



martedì 4 agosto 2015

"Chesta è Massa dicette Sardella."



Sardella era un pescatore della Marina Grande di Sorrento che faceva da Caronte ai viaggiatori, che, una volta giunti a Sorrento, avessero voluto proseguire per Massa senza dover affrontare la sconnessa mulattiera. Un giorno sbarcò a Sorrento un viaggiatore il quale, pur volendo evitare il percorso terrestre, non era assolutamente disposto ad accettare di pagare la somma per il passaggio, ma pretendeva di pagarne solo la metà. Dopo una lunga ed estenuante trattativa, Sardella "cedette" alle insistenze del viaggiatore, lo fece salire in barca, e incominciò a remare alla volta di Massa.

Giunti a Puolo accostò, fece scendere il passeggero facendogli credere che si trattasse della Marina della Lobra (approdo di Massa Lubrense) e se ne tornò tranquillamente alla Marina Grande.




Da qui nasce la tradizione di dire
 al passaggio davanti alla Marina di Puolo : 

"Chesta è Massa dicette Sardella."



fonte: LE COSTE DI SORRENTO E DI AMALFI

di GIOVANNI VISETTI.
Matrimonio Ultras

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GRAZIE DI TUTTO GIORGIO ASCARELLI



Giorgio Ascarelli, il primo Agosto del 1926 dopo aver riunito tutte le squadre cittadine, fondò il nostro Napoli. Grazie a lui la squadra azzurra poté competere con le corazzate del Nord e fu tra le prime a dotarsi di uno stadio di proprietà : "Il Vesuvio"( nella foto che ho messo in basso, si vede Ascarelli con la maglia a righe mentre posa la prima pietra dello stadio)
Tra i promotori del movimento artistico culturale : Rinascimento ebraico, subì e non poco le intimidazioni del regime fascista, continuando però a difendere a testa alta e con tutto se stesso, la sua creatura preferita:
Il Calcio Napoli.


Grazie di tutto,
Giorgio.

ZzZz Poesia

Il Tramonto, è la poesia che il Sole scrive alla Luna.
Per provare a farla arrossire.
ZzZ

ZANZAPENSIERI



Ho deciso quando avrò un cane lo chiamero' GOL.

Da pronunciarsi però alla brasiliana:
"Gooogooogģoooogggooooolllll."


Così tanto per lo sfizio di vedere i vicini bussarmi al citofono per chiedere:
"Pe' ma chi ha segnato?? "

ZzZzZ




"E il settimo giorno si riposo'.. "
Si, ma poi Dio che fece in quella giornata?
Si mise a giocare a tresette con San Pietro?
Si vide la partita del Napoli o se ne andò all' Acquaflash con Gabriele e gli Amici?


Sono domande che al tempo dell' ACR feci piu' volte al catechista.

Non mi ha mai risposto.

ZzZz

JAY JAY OKOCHA, UN CIRCENSE IN SCARPE DA CALCIO




"Giocavamo con qualsiasi cosa, qualsiasi cosa vagamente tonda. Poi quando abbiamo visto per la prima volta un pallone, beh,
e' stato fantastico. "‪#‎JayJayOkocha‬

LA LEGGENDA DEL NIGER. JAY JAY OKOCHA, UN CIRCENSE IN SCARPE DA CALCIO: TRA PALLONI DI STRACCI E FINTE IMPOSSIBILI

http://zonacesarini.net/



In Nigeria I’m legend, something like Jay-Jay Okocha.”

 L’incipit è un ritornello, un refrain dalle sonorità hip-hop che aleggia durante una canzone di M.I.A. – vocalist britannica dalle origini tamil. E se il testo di un pezzo scritto da una cantante che ha scalato le classifiche inglesi cita Augustine Azuka Okocha, per tutti Jay Jay, non possiamo che partire da qui per ricostruire pezzo dopo pezzo una vita, ancor prima che una carriera, fatta di abbaglianti ascese e divertimento sparso come polvere magica su più continenti: dall’Africa nera agli USA, passando per la vecchia Europa e la Turchia, ideale ponte fra Occidente ed Oriente. Perché la storia di Jay Jay è anzitutto una favola che sa di gioia, libertà ed istinto sprigionati su un prato verde come su un terreno polveroso e accidentato. Sul delta del Niger come al Parco dei Principi: un viaggio vissuto col sorriso sulle labbra e con gli occhi spalancati degli avversari che cercavano di fronteggiare il più grande giocoliere della storia del calcio nero. Uno che potevi distinguere in mezzo ad un miliardo di calciatori, uno dotato di un gioco tutto suo. Questione di stile. Caratteristica innata che Okocha deteneva in surplus. Il Niger, dicevamo. Jay Jay nasce da queste parti in un remoto villaggio alle porte di Enugu, capitale dello stato federato ed ex capitale della Repubblica del Biafra. È l’epicentro dell’etnia Igbo – ovvero “enu Ugwu”, letteralmente “in cima alla collina” – coloro che per ultimi si sono arresi alla colonizzazione britannica del Delta e delle sue ricchissime terre. Etnia di guerrieri, sconfitta dal peso dell’invasione inglese dopo una strenue e oltremodo drammatica resistenza. In questo paradiso naturale Jay Jay è un bambino come tanti, di quelli che riescono a malapena a concludere una giornata a stomaco semi-pieno, per usare un eufemismo. Perché appena 9 anni prima della sua nascita in quelle regioni bellissime e impervie si era combattuta la Guerra del Biafra: evento tristemente celebre in buona parte dei paesi occidentali quale icona della “fame nel mondo”. Insomma, Okocha è figlio di un’etnia e di un angolo di mondo speciali. Abituato fin da piccolo a seguire un istinto di sopravvivenza quasi innato, in una terra in bilico fra genocidi e devastazioni ambientali per mano di grandi compagnie petrolifere. Un istinto che trova la sua sublimazione su un campo da calcio. O meglio, rincorrendo qualsiasi cosa si avvicini, anche lontanamente, ad un pallone. “Giocavamo con qualsiasi cosa, qualsiasi cosa vagamente rotonda. Poi quando abbiamo visto per la prima volta un pallone, beh, è stato fantastico”. Il pallone è un momento di felicità e spensieratezza nelle lunghe giornate nei sobborghi di Enugu, un rifugio istintivo dalle miserie del mondo. È proprio in queste condizioni che Okocha inizia a sviluppare la sua attitudine al gioco: una continua fuga fatta di finte e movimenti quasi innaturali per cercare di non perdere mai il pallone in mezzo a tanti ragazzini di strada come lui. Si sussurra che nasca da queste parte il celebre “step-over”, quella finta che somiglia più ad un passo di capoeira che a un dribbling. Quel movimento rapidissimo che si porterà dietro per sempre, come un artista la sua firma. Un freestyler con la palla incollata al piede. Un numero circense che presto conosceranno anche in una città ricchissima e lontana anni luce da quei terreni polverosi: Francoforte. Jay Jay, ancora bambino, si trasferisce con la famiglia sulle rive del Meno. Da qua prende forma la sua carriera di numero 10 puro: estraneo ad ogni dettame tattico. Talento naturale che fa impazzire avversari e allenatori, che cercano disperatamente di limitarlo o ingabbiarlo dentro un concetto pre-ordinato del gioco. Okocha invece detta il suo calcio: fuori dagli schemi, egoista, pittoresco e bizantino. È un 10 che pare fuoriuscito da un mondo parallelo, fatto di giocate sbalorditive e svago continuo. Soprattutto se giochi nell’Eintracht Francoforte e in panchina siede un signore severo che ha fatto dell’organizzazione tattica un credo inscalfibile: Jupp Heynckes. È il primo vero scoglio da superare per un calciatore anomalo come Jay Jay. Con Heynckes i rapporti sono da lunghi coltelli e il sergente di ferro non fa niente per migliorare la situazione. Nonostante un’annata che porterà l’Eintracht alla retrocessione, Jay Jay si mette in mostra con numeri e gol che in Bundesliga credevano appartenere ad un’altra dimensione. Okocha ha lasciato il segno: il suo è un calcio che semplicemente non esiste. Chiedere a un moloch come Oliver Kahn per ulteriori conferme. Ubriacato a passo di danza tribale insieme a tutta la retroguardia del Karlsruhe. Arriva il 1994, e la favola ludica di quel 10 da circo fa i bagagli e riempie gli occhi del mondo in un’estate torrida passata negli Stati Uniti. C’è il mondiale e la sua Nigeria scrive una delle favole di calcio africane più significative della storia. È il team delle Super-Aquile, una squadra che calamita attenzioni e simpatie in egual misura, frantumando ogni certezza avversaria sotto il ritmo e le giocate individuali di un pugno di talenti di grandissimo spessore. Dalle corse infinite di Finidi alle cannonate di Oliseh, dai gol di Amunike ai giochi di prestigio di Jay Jay. La Nigeria in campo è uno spettacolo e Okocha si ritaglia la parte dell’attore protagonista, al punto che inizia a girare un soprannome eloquente: The African Maradona. La Nigeria ai Mondiali di USA '94 La Nigeria ai Mondiali di USA ’94 Dopo aver spazzato via la Bulgaria di Stoichkov con un perentorio 3-0, la Nigeria inciampa contro l’Argentina di Basile ma si prende la testa del girone regolando con un 2-0 senza storia la Grecia. Il tabellone dice ottavi di finale, a Boston, contro l’Italia. E sarà soltanto una doppietta del Divin Codino a spezzare violentemente il sogno africano, dopo un’estenuante partita (quasi) chiusa sull’1-0 per le Super-Aquile. Poco importa, la Nigeria ha messo in mostra una batteria di talenti che andranno ben oltre il risultato finale. Materiale epocale per il calcio africano. Lo stesso Okocha è ormai considerato un 10 di livello mondiale, immarcabile, imprevedibile e fuori da ogni schema. Dopo un paio di stagioni di buon livello a Francoforte accetta la chiamata di un club storico, sospeso fra grandi ambizioni e un calcio ancora non pienamente evoluto. Va al Fenerbahce. I Canarini Gialli e il loro mondo a metà fra Asia ed Europa sono l’ambiente ideale per il giovane Okocha. Parlano i numeri: 62 partite, 30 gol. Sul Bosforo matura come calciatore, impreziosendo il suo bagaglio da illusionista con un’abilità sorprendente sui calci da fermo. Colpi d’esterno, doppi passi con la suola, step-over con le gambe che sembrano andare in due differenti direzioni, botte di collo pieno da distanza impensabile, colpi di tacco e dribbling dove lo spazio è un concetto astratto. È esploso un talento, è nata una stella. Porta il nome di un’antica tribù di guerrieri e il numero 10 sulle spalle. Appare come una variabile impazzita in mezzo a 21 giocatori che si muovono tutti in maniera simile. A Istanbul, sulla sponda asiatica, rimarrà due stagioni, facendosi amare come pochissimi altri. Prima del volo per Parigi, però, c’è un’altra straordinaria favola da scrivere con quella maglia verde e bianca: le Olimpiadi sono alle porte. Nuovamente negli States, dove i nigeriani hanno un conto in sospeso con la fortuna da due anni. Atlanta è il coronamento – quantomai effimero – del black power nel calcio. La Nigeria – guidata da Okocha e Kanu, entrambi in forma straripante – liquida tutti gli avversari andando a conquistarsi un Oro olimpico che trasuda leggenda contro l’Argentina di Zanetti, Sensini, Ortega, Crespo e Claudio Lopez. È un 2-3 incredibile, che arriva dopo una folle semifinale vinta per 4-3 contro il Brasile di Ronaldo, Roberto Carlos e Bebeto. È il canto del cigno del calcio africano: il trionfo che sembra preannunciare una nuova era che non si aprirà mai. Una nuova era che, però, si apre per Jay Jay. Bagagli in mano, dalla Moschea Blu all’ombra allungata della Torre Eiffel. È l’estate del mondiale in Francia e Okocha vola a Parigi con le stimmate del campione. 26 milioni di euro ai turchi e quel 10 dal calcio inspiegabile veste la casacca rosso-blu del Saint Germain. A Parigi passa quattro anni intensi, facendo letteralmente da chioccia ad un giovanissimo talento brasiliano che pare l’unico a potersi avvicinare alle sue giocate sbalorditive. È Ronaldinho, che proprio nel suo periodo parigino si guadagnerà fama e onori giocando fianco a fianco con Jay Jay. Passano alla storia del club le sessioni post-allenamento fra i due, che si sfidano in continui duelli faccia a faccia alla ricerca del dribbling migliore. Tradotto: il più fantasioso. I due numeri 10 stringono un legame fraterno fatto di spensieratezza e numeri che fanno infiammare le folle. Divertimento puro. Una forma d’arte primigenia legata al fattore ludico, alla parte illusionistica del gioco del calcio. Okocha farà in tempo ad alzare una Coppa di Lega all’interno di un contesto tecnico e societario piuttosto caotico. Poi una telefonata, dall’altro capo del filo un santone che di nome fa Alex e di cognome Ferguson. È il 2002, ancora un’estate mondiale, a cui partecipa con la sua Nigeria, e nuovo cambio di casacca. Stavolta quella rosso fuoco del Manchester United. Ma qualcosa va subito storto e il suo rapporto coi Red Devils non comincia praticamente mai, finendo in comproprietà in una società piccola e appassionata dove può mostrare il suo calcio anarchico. Va al Bolton, dove rimarrà quattro anni. Diventa una leggenda del club di Horwich, cittadina immersa nel verde che abbraccia i dintorni di Manchester. È il capitano e la figura a cui aggrapparsi in campionati giocati costantemente sul filo del rasoio di una salvezza all’ultima giornata: l’unico capace di far girare una squadra modesta in un contesto ultra-periferico e di tirare fuori dal cilindro i suoi numeri irrazionali. Lasciando a bocca aperta un pubblico abituato a tackle ruvidi e lanci coast-to-coast. La stessa tifoseria che conierà un motto speciale per quel numero 10 magico: “So good they named him twice.” Un’investitura totale. Dal Delta del Niger alla nebbia umida della Contea della Great Manchester. Okocha è gioia universale, divertimento senza frontiere. Meraviglia e senso di stupore in scarpe da calcio. Chiuderà la sua carriera da globetrotter del pallone passando prima dal Qatar e poi di nuovo sotto la Corona, all’Hull City. Nel mezzo, incide un disco, vola per un’estate in Australia alla ricerca di sé e si sposa, trovando un senso a quel ritorno in Inghilterra. Perché è tutta questione di gioia, da prendere e dare. “In Qatar mi annoiavo parecchio. Non c’è quasi nessuno a vedere le partite, l’atmosfera non mi piaceva. Dio mi ha indicato la strada giusta, e la fede per me viene prima di ogni altra cosa.” Traducete Dio con Hull e fede con pallone, ed ecco spiegata l’ultima tappa del circense nigeriano. Arriva a Kingston upon Hull, nel cuore dello Yorkshire, alla soglia dei 35 anni. È il 2008 e cala il sipario su una carriera infinita con l’ultima annata di calcio giocato, caratterizzata da numerosi infortuni e qualche sprazzo dei suoi. Si ritira così uno dei calciatori più irripetibili della storia del gioco. Figura naif e trascinante, fantasista entrato di diritto nell’immaginario collettivo di ogni appassionato di calcio sparso nel globo.Tanto che oggi a Ogwashi-Uku, città nel cuore del Delta del Niger, potresti imbatterti in uno stadio che di nome fa Jay Jay Okocha. Sarebbe retorico aggiungere altri particolari. Prima di ritirarsi, però, arriva il suo ultimo dribbling. Probabilmente il più significativo. Illuminante. Incide alcuni video in cui spiega ai ragazzini quali sono i segreti dei suoi dribbling leggendari, insegnando step by step quelle meraviglie circensi. In attesa di un nuovo ragazzino africano che sarà chiamato con due nomi perché troppo bravo. È soltanto questione di tempo. Parola di Jay Jay. “Sono sicuro che un altro Jay Jay sia là fuori. Ma la cosa più importante è farsi una domanda pertinente: in Nigeria abbiamo le strutture adatte per riuscire a produrre un altro Jay-Jay Okocha, un altro Nwanko Kanu o un altro Sunday Oliseh? Credo che dovremmo sforzarci e ristrutturare il calcio nigeriano per far crescere questi talenti, che sono sicuramente là e aspettano soltanto di essere scoperti.”

SORRENTO,#summersport2015 TRIONFA LA N3W TEAM

SCOPERTA PER...SAGRE

Mentre mangiavo il panino col riavulillo ad Arola,  ho visto questa targa. Andando per sagre s' imparano nu' sacc 'e cose.

Evviva o' Riavullillo, Evviva 'O Rre Nuost!

.... i pochi che sanno s' inchinano.


CON RAFELITO CASTRO



Oggi sono stato a pranzo con il cugino di Fidel:
Rafelito Castro.

Hasta Siempre.


1868: Sorrento stampa moneta.



1868: Sorrento stampa moneta.


Con la conquista da parte di Garibaldi del Regno delle Due Sicilie e la costituzione del Regno d' Italia, nel 1861, cominciarono a sorgere vari problemi, fra i quali quello dell' unificazione della moneta con il suo "corso forzoso", il che provocò la scarsità di moneta spicciola. Sorse il cosiddetto "agio sul bronzo", per evitare il quale lo Stato autorizzò i Comuni ad emettere carta moneta.
Sorrento, fra una decina di Comuni nell' Italia meridionale ed oltre duemila nel Nord, vi provvide con la delibera del Consiglio Comunale del 30 Maggio 1868.
Il Sindaco, Tommaso Galano, svolse una relazione con la quale illustro' che, per il cambio di una Lira si era costretti a lasciare il 7% di agio, cioè ci si trovava di fronte ad una vera e propria usura.
Il C. Comunale, all' unanimità, delibero' l' emissione di biglietti frazionati da 5, 10 e 25 centesimi da porre in circolazione fino a quando se ne fosse avvertita la necessità.
Furono stabilite le norme di attuazione dell' adottato provvedimento, che precedevano lo smercio presso un ufficio appositamente installato da parte dello stesso Comune ed i portatori sarebbero stati rimborsati a vista, previa l' esibizione di tanta quantità di carta moneta che formasse almeno due Lire.
(... ) E' stato accertato che fino alla cessazione, che le emissioni delle Banconote del Comune di Sorrento furono due, con importo complessivo di biglietti per complessive L. 20. 000 la prima e L. 18. 400 la seconda.


Fonte: Sorrento si racconta
di A. CUOMO

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