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giovedì 16 settembre 2010

LIBIA E GLI SPARI SUL PESCHERECCIO ITALIANO, QUI TONNO CI COVA


La lunga mano del Colonnello sul tonno rosso

«Ci permetterà di salvare molte vite». Così l'allora ministro dell'interno Giuliano Amato annunciava il 29 dicembre 2007 la firma del protocollo per i «pattugliamenti congiunti» delle coste libiche. Un protocollo che sarebbe entrato in vigore solo a un anno e mezzo di distanza, dopo cioè la firma del «Trattato di amicizia, cooperazione e partenariato» nell'agosto 2008 e la sigla di un ulteriore protocollo di attuazione il 4 febbraio 2009 tra il ministro degli interni Roberto Maroni e il suo omologo libico. Nel protocollo - firmato da quello stesso centro-sinistra che ha votato in massa il Trattato di amicizia e che oggi ne chiede la revisione - si prevede la consegna alla Jamahiriya di sei unità navali da usare «per operazioni di controllo, ricerca e salvataggio nei luoghi di partenza e di transito delle imbarcazioni dedite al trasporto di immigrati clandestini».
Da allora, le sei motovedette sono state usate per riportare in Libia gli immigrati intercettati dalle navi militari italiane e rimandate indietro dal maggio 2009 nelle cosiddette operazioni di «respingimento». Ma non solo: vengono usate per i generali compiti di pattugliamento delle coste libiche, come ha dimostrato in modo eclatante l'episodio di domenica sera.
Un compito che appare tanto più sorprendente se si considera che l'estensione delle acque territoriali della Jamahiriya è oggetto di contenzioso internazionale. Tripoli ritiene dal 1975 che le acque del Golfo della Sirte siano parte integrante del proprio territorio e integra quindi nelle proprie acque territoriali l'area di 12 miglia a partire da una linea retta che unisce i due punti di entrata geografici del golfo. Dal 2005, poi, ha stabilito in modo unilaterale una zona di pesca protetta di 62 miglia, all'interno della quale nessuno può pescare senza una particolare licenza. Così, le acque territoriali libiche si estendono a 74 miglia per tutta l'estensione delle coste e raggiungono anche le 100 miglia in corrispondenza del golfo della Sirte. Quando il ministro degli esteri Franco Frattini sostiene che «l'Ariete pescava illegalmente», fa quindi propria una decisione dei libici che né la comunità internazionale né l'Italia hanno mai riconosciuto ufficialmente - tanto che persino il Trattato di amicizia rimanda a «future intese» per risolvere il contenzioso.
Ma perché la Libia ha esteso a dismisura le proprie acque territoriali? Se per alcuni dietro la decisione ci sono ragioni di «sicurezza nazionale» (le acque della Sirtica sono state teatro delle grandi manovre statunitensi negli anni '80 per rovesciare il Colonnello Gheddafi), per altri i motivi sarebbero ben più prosaici. La zona in questione è infatti ricca del pregiatissimo «tonno rosso», specie in via d'estinzione e sottoposta a quote di pesca nel Mediterraneo. A quanto ha denunciato il Wwf, riprendendo un rapporto della «Tuna ranching intelligence unit» (uno studio finanziato dai produttori di tonno rosso spagnoli), per pescare in Libia tonno rosso bisogna necessariamente passare per una società con sede a Tripoli, la Nour-Al Haiat Fishing Co. (Nafco), il cui capo è Alladin Wefati, intimo amico del secondogenito e successore designato del colonnello Seif el Islam Gheddafi. La Nafco stabilisce joint-venture con società spagnole, italiane, francesi asiatiche per pescare il tonno rosso, fornendo anche tutto l'apparato logistico. Secondo lo stesso rapporto, esisterebbero voci non confermate che molto tonno è pescato illegalmente e fuori dalle quote, per poi essere congelato in alto mare in pescherecci asiatici.

IL MANIFESTO

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