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lunedì 16 marzo 2015

BILL SHANKLY,He made the people happy.

«Il calcio non è niente ma è tutto per la gente di Liverpool. Quello che facciamo il sabato dà uno scopo e un senso ai lavoratori. Perché il calcio è lo sport dei lavoratori».

BILL SHANKLY, l' uomo del popolo che rese felice la KOP


Alcuni credono che il calcio sia una questione di vita o di morte. Sono molto deluso da questo atteggiamento. Vi posso assicurare che è molto, molto più importante di quello.
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"Sono un uomo del popolo".Poche parole, incisive, dirette, dure. Come il protagonista di questa storia. Uno scozzese testardo, nato in miniera e divenuto uno scouser fino all’ultima goccia del suo sangue. Un allenatore avanti anni luce rispetto alla sua epoca, un precursore del gioco e un fine psicologo. Un eroe della sua gente. Un eroe del popolo. Un eroe del Liverpool Football Club. L’eroe in questione è quello che, a braccia larghe e pugni stretti, ti accoglie all’esterno di Anfield, appena fuori il museo.L’eroe in questione è Bill Shankly, l’allenatore più amato dalla Kop. Un uomo del popolo.
He made the people happy. Queste sono le parole incise sotto la statua di Bill Shankly. Si, perchè di felicità avevano bisogno le persone di Liverpool, in quel disastroso 1959. Di felicità e di speranza. Perchè la situazione non era delle migliori, e la gente del Merseyside aveva bisogno disperatamente di aggrapparsi a qualcosa. Quasi sempre, quel qualcosa indossava una maglia rossa e giocava le sue partite ad Anfield Road. E in quel disastroso 1959, la felicità era ben lontana dal poter essere soltanto immaginata. Il Liverpool Football Club navigava nei fangosi bassifondi della Second Division. L’ultimo trionfo in campionato datato 1947. La speranza di rivedere i Reds alzare un trofeo sempre più flebile. Serviva un uomo forte, un uomo abituato a lottare, faticare, sudare, anche e soprattutto dalla panchina.


Quell’uomo, i dirigenti del Liverpool, se lo andarono a prendere ad Huddersfield, là dove la vita aveva portato Bill Shankly. Bill Shankly che al Liverpool arriva. Vede. Osserva. Valuta quello che gli piace e quello che non gli piace. Riassumendo, in breve. Cose che gli piacciono: la Kop, le maglie rosse, la gente di Liverpool. Cose che non gli piacciono: tutto il resto. Bill Shankly arriva al Liverpool Football Club, vede, osserva, prende nota, comunica le sue decisioni. Piazza pulita di tutti gli elementi che non ritiene adatti al suo progetto. Alla fine della prima stagione saranno 24. Fa sistemare il campo di allenamento, impone i suoi metodi di allenamento, rivoluzionari per l’epoca. Soprattutto, impone che si corra, tanto. Come piace a lui. Fa costruire delle gabbie particolari in cui i suoi giocatori possono esercitarsi nei passaggi, possono migliorare il loro controllo di palla. Indossa i calzoncini e le scarpette, e gioca con loro.



Gli scousers lo amano dal primo giorno. E’ amore a prima vista, tra lui e la Kop. Amore incondizionato e, soprattutto, ricambiato. Certo, non proprio dal primissimo giorno, forse. L’esordio di Bill Shankly sulla panchina di Anfield viene salutato da un rotondo 0-4 contro il Cardiff. Quasi a preannunciare che la strada per la risalità sarà ripida e tortuosa. Shankly vede, osserva, distrugge per poi ricostruire. Sceglie i giocatori più adatti al suo gioco, ma soprattutto quelli che ritiene abbiano le qualità mentali per far parte dei Reds. Roger Hunt, Ian Callaghan, Ron Yeats, Ian St. John. Il Santo, che esordì con una tripletta all’Everton in un trofeo amichevole, fu l’uomo decisivo per la risalita. Nel 1962, finalmente, il Liverpool era tornato nel posto che gli spettava. In First Division.

Stagione 1963-64. Il Liverpool ritorna in vetta alla First Division. E ci resta fino alla fine. I Reds tornano campioni d’Inghilterra, Bill Shankly ha conquistato il titolo. E’ lui l’artefice della risalita e della vittoria del titolo, ma non ne vuole sapere di prendersene i meriti. «Per me il socialismo vuol dire lavorare per gli altri e dividere con loro i risultati. E’ il modo in cui intendo il football, è il modo in cui intendo la vita». E proprio la voglia di sacrificarsi l’uno per l’altro, la grinta messa in campo, l’umiltà nell’approcciare qualsiasi incontro, sono le chiavi del ritorno del Liverpool ai vertici del calcio inglese e poi europeo. Uno spirito combattivo, lo spirito di chi ha dovuto vedere il buio prima di tornare a vedere la luce. Lo spirito dei minatori, quello che anima l’uomo Shankly.

E poi ci sono le intuizioni geniali del motivatore Shankly. 25 novembre del 1964. Il Liverpool campione di Inghilterra affronta l’Anderlecht ad Anfield. Gli avversari sono forti, fanno paura. C’è bisogno di qualcosa che li spaventi, che gli faccia temere il muro rosso della Kop. Semplice, pensa Bill. Il Liverpool indossa, oltre alla solita maglia rossa, anche i pantaloncini dello stesso colore. Il muro della Kop è sceso in campo. I Reds, da quel giorno, fanno paura, rossi come il sangue. Bill Shankly vince altri due campionati, due FA Cup. Il Liverpool è di nuovo sulla mappa del calcio inglese. Ora bisogna riportarlo sulla mappa del calcio europeo.

La Coppa dei Campioni sfugge sempre, come un’utopia sulla quale Bill Shankly non riuscirà mai a mettere le mani. Il Liverpool però, nel 1973 si porta a casa la Coppa UEFA, finalmente. I giocatori stanno festeggiando la fine di quella gloriosa stagione davanti al proprio pubblico. Come spesso accade, anche Bill va a raccogliere l’abbraccio della Kop. La gente è tanta, Anfield straborda. Bill adora, di tanto in tanto, mescolarsi con la sua gente. Ma oggi, proprio non può farlo. Compie il giro di campo insieme ai suoi ragazzi. Dalla Kop volano sciarpe come se piovesse. Una stupenda pioggia rossa. Un poliziotto, con i piedi, sposta una di quelle sciarpe che stavano in terra. Bill Shankly si avvicina al poliziotto. Con l’autorità di chi può permetterselo, perchè il padrone di Liverpool è lui. «Non farlo mai più. Per te è solo una sciarpa, per un ragazzo rappresenta la vita». Bill Shankly raccoglie la sciarpa, la solleva al cielo, se la mette al collo. Per dimostrare che è uno scouser, per dimostrare ancora una volta che è un uomo del popolo.
Bill Shankly, il re della Kop


Per la sua gente, Bill, farebbe di tutto. Scende in strada, regala biglietti a chi non può permetterselo. Riceve sacchi interi di corrispondenza, e risponde ad ogni singola lettera che gli viene recapitata nel suo ufficio. Sa perfettamente quanto il Liverpool conti nella vita di ciascuno dei suoi tifosi. E non vuole deludere nessuno. Soprattutto un tifoso del Liverpool.

E poi ci sono le ossessioni. Senza le quali, forse, Bill Shankly non sarebbe potuto diventare tale. L’ossessione per la vittoria, l’ossessione per la sconfitta. Il secondo posto, da evitare ad ogni costo. E poi l’Everton, quel maledetto Everton. Quando Bill Shankly si siede sulla panchina dei Reds, l’Everton è la squadra più forte di Liverpool. Due squadre rivali, ma che si rispettano. Eppure Bill sa che per un tifoso del Liverpool nulla conta più della supremazia cittadina. C’è l’ossessione per il Subbuteo. Bill ama procurarsi le squadre avversarie in miniatura, per poi portarle negli spogliatoi ai suoi ragazzi. Per dimostrare quanto piccoli sono.

Bill Shankly lascia la panchina del Liverpool nel luglio del 1974. Non prima di aver regalato un’altra Coppa d’Inghilterra alla sua gente. Lascia la squadra al suo fedele vice, Bob Paisley. Che riuscirà ad arrivare là dove lui non è mai riuscito: sul tetto d’Europa, a sollevare la Coppa più prestigiosa del continente. Bill osserva, da fuori, consapevole che senza di lui nulla sarebbe stato possibile. Eppure deve vedere il Liverpool diventare grande da fuori, come un estraneo. La dirigenza del Liverpool non gli offre un ruolo dietro una scrivania, lui incassa il colpo ma non lo dà a vedere. Continua a stare tra la sua gente. Mette la sciarpa al collo e va nella Kop. Stringe mani, firma autografi, regala biglietti. Bill Shankly è sempre l’uomo del popolo.


Ancora oggi, a più di 30 anni dalla sua morte (infarto fulminante nel 1981) ogni angolo di Anfield deve tutto a quest’uomo. Tutto quello che il Liverpool significa, lo deve a questo scozzese dal cuore grande e dalla faccia spigolosa. Quando Steven Gerrard, sfortunatamente ancora per poco, raccoglie i suoi compagni, si mette davanti a tutti, e imbocca la scalinata che porta al terreno di gioco, alza una mano.La batte sul simbolo con il Liverbird, sotto il quale campeggia una scritta. This is Anfield. L’ha fatta piazzare lì Bill Shankly. 
«Per ricordare ai nostri ragazzi per quale maglia giocano, e ai nostri avversari contro chi giocano».
In una squadra di calcio c'è una Santa Trinità: i giocatori, il tecnico e i tifosi. I dirigenti non c'entrano. Loro firmano solo gli assegni.

ARTICOLO di
Valerio Nicastro
twitter: @valerionicastro

1 commento:

Gianmaria Framarin ha detto...

Mah... cominciamo col dire che Shankly era scozzese, non scouser... ed era fieramente scozzese. Tra scozzesi e scousers le differenze sono notevoli, con le analogie dell'essere popolazioni working class e con una certa porzione irlandese al proprio interno.
In Scozia, però, si sente una forte rivalità coi vicini verdi, mentre Liverpool è più irlandese che inglese... ma la squadra degli irlandesi era sempre stata l'Everton, il Liverpool prima rappresentava soprattutto i protestanti.
Se lo scozzese fiero è poco ospitale con il "cugino" irlandese (peggio, ovviamente, con gli inglesi), Liverpool è città che accoglie un po' di tutto, da buon porto...
Fino all'avventura col Liverpool, Bill Shankly aveva sempre tenuto per i Rangers, da buon scozzese. Poi però diventi professionista, e lì cambia tutto.
Qui comincia la storia che hai ben scritto tra Shankly e i reds. Tralascerei alcune mitologie da curva, Shankly era uomo di popolo, sì, generoso, certo, ma qua sembra addirittura un santo... comunque, è vero, da Shankly in poi è nato il Liverpool che conosciamo. Su questo non ci piove. E te lo dice un romanista, quindi, un anti-reds da sempre. :-(