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mercoledì 5 settembre 2012

IL LIBRO DELLO SCAFFALE: Nel nome dello Zio

LO SCAFFALE DELLA ZANZARA

“Nel nome dello Zio”, la camorra vista attraverso il Grande Fratello

La copertina del romanzo «Nel nome dello Zio»Il 6 settembre esce per Guanda  romanzo di Stefano Piedimonte, 32 anni, cronista del Corriere del Mezzogiorno. Il protagonista è Anthony, piccolo spacciatore spedito come concorrente al reality per comunicare dallo schermo con un superboss latitante

 C’è il boss spietato con i suoi temibili (e orribili) compari. Ci sono i morti ammazzati, il popolo dei Quartieri Spagnoli, la polizia che indaga. Ma “Nel nome dello Zio” (Guanda, in uscita il 6 settembre) esordio nella narrativa di Stefano Piedimonte, 32 anni, cronista del Corriere del Mezzogiorno, non è un thriller: è un esilarante trattato sulla camorra vista attraverso la lente deformante del Grande Fratello. Perché si ride, e di gusto, leggendo delle traversie di Anthony, piccolo spacciatore spedito come concorrente alla più trash delle trasmissioni televisive allo scopo di comunicare dallo schermo con il superboss latitante.

 

E, nel solco della migliore satira, si scoprono usi e costumi dei moderni “malamente”: umani, troppo umani anche loro, dunque soggetti alle peggiori abitudini. Tipo non perdere una puntata della trasmissione che, curiosa coincidenza, fa da sfondo anche a “Reality” (nelle sale da fine settembre), l’ultimo film di Matteo Garrone, il pluripremiato regista di Gomorra. Ma libro e film hanno in comune solo il riferimento al GF. E gli uomini di panza, intesi come sovrappeso. Ciccioni, a giudicare dal trailer, sono parenti e amici del pescivendolo che nel film si crede sotto esame del Grande Fratello. Decisamente obeso è Peppino “o’ Fetente”, personaggio chiave del romanzo, che in un seminterrato dei Quartieri prepara Anthony alle selezioni per lo show a suon di sberle e lezioni di danza su musica “frizzantina”. Ma anche di poesie per colpire i selezionatori e i futuri coinquilini: “haiku”, brevi composizioni giapponesi. “Peppino le aveva chiamate “poesie per coglioni”. Diceva che erano brevi, molto facili da memorizzare, e quindi se non ne avesse imparate almeno dieci gli avrebbe ustionato le piante dei piedi con le cicche di sigaretta”.
“‘O Fetente”, detto anche “il Ciccione”, è solo il primo di una galleria di personaggi indimenticabili: a cominciare dallo Zio, il boss innamorato della conduttrice del GF: uno che pur provenendo da una famiglia umile e onesta, “in pochi anni, anche senza una tradizione alle spalle, era riuscito a scalare posizioni e a raggiungere i vertici del clan”. Sua moglie Gessica, che beve solo champagne Cristal e legge i romanzi di Zafòn. Senza tralasciare i “mostri” protettori del boss: Alberto “‘o Malamente”, Germano “Spic e Span”, Sandruccio “la Zitella”, Pasquale “Bruciulì”, Biagio “‘o Femminiello”. “Cinque mostri, cinque volti rovinati dalla bruttezza innaturale che infesta gli animi violenti: quella che si sviluppa di anno in anno, di ora in ora, di carcerazione in carcerazione sulle facce di chi vuol trasmettere coscientemente un messaggio prima di ogni altra cosa: “Attenzione, sono un criminale”. Ma non tutto, nel romanzo, è parodia: qua e là Piedimonte inserisce informazioni autentiche su come la camorra controlla piccoli e grandi traffici. Per esempio quando illustra il lavoro di Totore Telecòm, fine conoscitore dei sistemi per frodare la pay tv e organizzatore di proiezioni clandestine dei match calcistici: “Anche su quello c’era da lucrare parecchio: una partita del Napoli proiettata in un sottoscala, con duecento spettatori stipati come sardine a quattro euro l’uno, significava ottocento euro esentasse guadagnati praticamente senza muovere un dito. In periodo di campionato lo scherzetto tornava buono per distribuire qualche soldino alle famiglie degli affiliati detenuti”.


Quel vizietto (televisivo) del boss

Un estratto dal romanzo di Stefano Piedimonte
«Nel nome dello Zio», edito da Guanda

La vita dello Zio era incasinatissima, fatta di incontri, riunioni con i suoi gregari, verifiche, ispezioni a sorpresa nelle piazze di spaccio e tre passeggiate al giorno nel quartiere. Un po' come i politici a ridosso delle elezioni, doveva dimostrare quotidianamente la presenza sul territorio. L'indotto era piuttosto ampio e l'economia locale ruotava intorno al clan, grazie agli affiliati, ma anche a tutti quelli che in maniera più o meno diretta contribuivano a rimpinguare le finanze dell'organizzazione. Gessica, sua moglie, il cui nome era stato trascritto all'anagrafe con la g piuttosto che con la j per via dell'analfabetismo paterno unito a un grosso potere persuasivo nei confronti dei funzionari comunali, viaggiava con l'immaginazione e leggeva i romanzi di Zafòn. Lo Zio usciva di casa alle dieci del mattino e tornava non prima delle otto. Giusto il tempo di salutarla, chiederle «come stai?», togliersi le scarpe e prepararsi al rituale. Da dodici anni, ormai, non ne aveva saltata una. Giravano voci, si raccontavano storie sulla sua abitudine che definire maniacale sarebbe stato riduttivo. Nei vicoli dei Quartieri Spagnoli si narrava che un giorno, sei o sette anni prima, a causa del suo vizietto lo Zio avesse mandato a puttane un incontro col capo della famiglia Strangio, boss della 'ndrangheta calabrese giunto a Napoli per stringere un grosso accordo sulle forniture di stupefacenti. L'incontro era previsto per le sette della sera, ma l'anziano boss calabrese era rimasto bloccato per due ore, col suo autista, nel traffico della tangenziale. Causa: un maxi-tamponamento con tanto di morti e feriti. Ebbene, quando Strangio era arrivato a suonare alla porta dello Zio s'erano fatte le nove. Aveva bussato per tre quarti d'ora mentre l'autista cercava inutilmente di chiamarlo al cellulare («L'utente non è raggiungibile») e domandava ai vicini di casa dove si fosse andato a cacciare. Nessuno sapeva niente, lo Zio non dava segni di vita, le persiane di casa erano chiuse e nel vicolo regnava il silenzio più assoluto. Dopo un'ora il boss, umiliato, incazzato come una bestia, aveva preso la via del ritorno. Per lo sgarro subito s'era messo in testa di inviare due sicari calabresi e fargliela pagare. Ragion per cui lo Zio, in maniera preventiva, aveva mandato i suoi per toglierlo di mezzo, ma senza riuscirci. Ne era nata una faida tra i clan napoletani e quelli della Locride conclusasi con sei morti ammazzati (tre da ogni parte) e una tensione fra i due gruppi mai totalmente sopita. I fascicoli sugli ammazzamenti erano ancora aperti in Procura e nessuno, dopo anni di indagini, era riuscito a cavare un ragno dal buco. Si credeva che dietro la catena di omicidi ci fosse chissà quale scissione o chissà quale tradimento. Ma la verità, fuori dagli uffici della Procura, non era un mistero: tutti nel quartiere sapevano benissimo che mentre Strangio bussava alla porta lo Zio era in casa, col citofono staccato. La sua «indisponibilità», alle nove della sera, aveva un nome: Grande Fratello.

fonti: IL FATTO QUOTIDIANO e CORRIEREDELMEZZOGIORNO.IT

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