una storia, una notizia, o qualunque cosa valga la pena di essere raccontata



mercoledì 20 giugno 2012

CESARE CREMONINI..."ALL' ESAME?? IO FECI ASCOLTARE 50 SPECIAL.."



LO SCAFFALE DELLA ZANZARA



....Non è vero. Sono in ritardo! Non ci credo, non è possibile, sto sognando, è uno scherzo. Dove sono i calzini? Dio santo, i jeans! Devo vestirmi in fretta, oggi... e meglio del solito! I miei boxer portafortuna, eccoli! Sarei capace di arrivare in ritardo anche al mio matrimonio, al battesimo di mio figlio, al mio stesso funerale! Maledetta sveglia! Perché non hai suonato? È tutta la vita che mi tiri giù dal letto prima del dovuto e proprio oggi ti sei presa un giorno di vacanza? Stupida sveglia. Stupida sveglia! E stupido io!
Gli appunti, gli appunti, dove sono i miei appunti? Eccoli qua, va bene. Schopenhauer. Ricorda, Cesare. Schopenhauer, ricorda Schopenhauer. Il resto non conta. Pensa alla musica, la musica di Schopenhauer.
Prendi lo stereo, prendi il tuo cuore. Lo stereo con il disco, prendilo e portalo con te. La 500, ora!
Vai, vola, vola, vola!
Per strada c'è poca gente, il traffico è leggero e scorrevole. Le nove e dieci di mattina. Spingo il piede sull'acceleratore con tutto il mio peso, con tutto il mio corpo, e corro più forte che posso verso scuola. Dovrei essere già lì da dieci minuti. E ci sarò più o meno fra... cinque, se non mi fermo mai. Due se non incontro semafori rossi. Uno. Eccomi.
Scendo dall'auto, prendo i libri, le fotocopie, gli appunti, lo stereo e corro, corro, corro verso le scale, verso il corridoio, inciampo ma corro, verso la porta, verso la maniglia, entro.
«Scusate, son qua!»
«Cremonini!» sento dire. «Ohibò!»
Sono quasi cieco dalla fatica. Prendo fiato. Il cuore va così veloce che sembra fermo. Cammino e prendo fiato, respiro e non parlo, sorrido e prendo fiato. Cammino e sorrido. Aiuto.
«Hai fatto una corsa, per caso, Cremonini?» mi chiede la professoressa di matematica, seduta al suo posto con le braccia conserte e uno sguardo divertito negli occhi. Accanto a lei, disposti a semicerchio, tutti i professori che mi hanno seguito e sopportato per tre anni, pronti a interrogarmi. Due docenti esterni al centro di quel semicerchio mi guardano attenti, seri.
«Scusate, sono molto in ritardo» riesco a dire ansimando.
«No» fa uno di loro, «abbiamo appena finito con il compagno che ti ha preceduto.»
«Siediti pure.»
Alzo l'indice della mano destra.
«Un attimo, prendo fiato.»
«Tranquillo, fai con comodo!»
L'aula è luminosa e vuota. Sembra più grande di come la ricordavo, e in qualche modo mi fa tornare in mente o immaginare le altre stanze in cui ho vissuto alcuni dei momenti più significativi della mia vita. La sala parto della casa di cura Villa Erbosa, dove sono nato. La "Sala Musica" del Sacro Cuore, in cui ho preso la mia prima lezione di pianoforte. L'aula in cui ho affrontato l'esame di quinta elementare, e poi quello di terza media. Ma anche l'ufficio del Pubblico Ministero, dove sono stato interrogato su questioni molto più complesse di quelle di un esame scolastico. E lo studio di Walter in via Montegrappa 18, la prima volta che ho registrato Vorrei. La luce accecante che inonda la stanza mi ricorda quella che nei miei pomeriggi di adolescente filtrava silenziosa dalla finestra del salotto di casa, illuminando la tastiera del pianoforte.
Cominciò la recita.
«Cos'hai lì?» mi chiese la professoressa di filosofia, sgranando gli occhi.
«Uno stereo, ho portato una mia canzone da farvi sentire.»
«Aaaah! Non lo sai?» chiese l'insegnante di matematica, guardando la collega stranita. «È un musicista, lui!» bisbigliò coprendosi la bocca con la mano per farmi ridere. Nonostante i miei voti tremendi in matematica, la adoravo quando faceva così. Era molto simpatica.
«Dai! Facci sentire» mi incoraggiò l'insegnante di chimica, quel giorno più in forma che mai. Io non capivo tutta quella disponibilità. Era una trappola? Un blitz in mio favore? C'era un copione per me da qualche parte? Non sapevo.
In fin dei conti, però, se ero lì e stavo per far sentire a tutta la commissione d'esame 50 Special, un motivo c'era.
Dovevo far capire a tutti cosa avevo combinato durante l'anno, e cosa avrei fatto dopo quell'esame. Quale fosse la mia vera passione, il mio destino. Uno che ha un futuro non va bocciato, avrebbero pensato dopo averla ascoltata. Era quello che mi auguravo. No, non poteva essere una trappola! Era una mano tesa nei miei confronti. E allora attaccai lo stereo alla spina, li guardai bene negli occhi, tutti quanti, e spinsi il tasto PLAY.
50 Special durò i suoi tre minuti e trenta secondi, e qualcuno fra i professori disse più volte di averla già sentita in radio. «Ah! Sei tu quello che canta?»
Il 27 maggio, a un passo dal mio esame di maturità, 50 Special era uscita in radio, e quello stesso giorno io ero andato a comprarmi il singolo in un centro commerciale vicino a Borgo Panigale, fuori Bologna. L'avevo comprato lì perché volevo vivere in completa solitudine quell'evento così atteso. L'emozione di poter acquistare il mio disco, la gioia di vederlo esposto in vetrina accanto a quelli dei Queen, degli Oasis, di Vasco, era stata così forte che ancora oggi, a ripensarci, mi viene la pelle d'oca. Fu indimenticabile. Mi era piaciuto a tal punto che avevo tenuto lo scontrino dell'acquisto, e la sera mi ero addormentato con il cd fra le mani, trovandomelo poi ancora stretto fra i pugni al risveglio, come se avessi temuto di perderlo nei sogni. Invece era tutto vero.
Alla radio avevo sentito per la prima volta la mia canzone su Lattemiele, per caso, alle due di notte di un giorno infrasettimanale. Erano passate già un paio di settimane dalla sua pubblicazione, ma non ero ancora riuscito a beccarla. Walter mi aveva detto che ci sarebbe comunque voluto un po' di tempo. Non era scontato che la canzone prendesse subito, anzi. Non era scontato nemmeno che venisse programmata. Ma io ero impaziente.
Stavo studiando in vista dell'esame scritto e mi ero preso una piccola pausa. Quando riconobbi le prime note di 50 Special alzai il volume al massimo, nonostante l'ora assurda, e restai incollato alle casse, il naso che toccava il display con indicata la frequenza. Avrei riaperto i libri la mattina seguente.
In seguito, dopo qualche settimana di programmazione piuttosto blanda, mentre l'esame di maturità si avvicinava inesorabile, il pezzo si era fatto lentamente strada, scalando piano piano la classifica dei brani più trasmessi dalle radio.
Il giorno dell'orale era già ben piazzata, perciò era normale che qualche professore la potesse riconoscere. Ricordo bene quando, pochi giorni prima, Walter mi aveva detto con un sorriso tutto particolare stampato in faccia: «Siamo entrati ufficialmente tra i dischi più suonati in Italia!».
La domanda mi era venuta spontanea. «Grande! In che posizione, Walter?»
«Trecentoquarantasettesima!» rispose ridacchiando. «Ma almeno esistiamo: da qui possiamo solo salire!» E stavamo salendo.
Walter era felice. Io di più. Mi sarei potuto trovare anche alla duemilatrecentoquarantasettesima posizione, sarei stato entusiasta lo stesso. Insomma, là dentro, in quella classifica, c'ero anche io! Era quello per cui avevo lottato. Esistere al di là dei muri che recintavano il mio mondo.
Mi sentivo leggero come una piuma quando pensavo a quel che mi era successo, e a come mi era accaduto. Ero stato il protagonista di una fiaba moderna, di un disegno prestabilito e di un grosso colpo di fortuna nello stesso momento. Le cose continuarono a muoversi bene, perché nel giro di tre settimane il pezzo cominciò a essere suonato anche dalle radio più ascoltate, a cominciare da Radio Deejay, che fu il primo network importante a mandarlo in onda. «Ecco i Lùnapop, questi cinque ragazzi di Bologna, con la loro 50 Special.»
Troppo bello per essere vero. Portare Bologna in alto con una mia canzone, sapere che la nostra musica viaggiava attraverso le onde elettromagnetiche, di antenna in antenna, di casa in casa, percorrendo il cielo come una stella cadente che inaspettata si fionda giù mentre tu la guardi meravigliato! Era più che fantastico.
Una mattina mi trovavo in via Murri, fermo a quel semaforo che dura una vita, e stavo tornando a casa dopo aver preso ripetizioni di matematica in vista dell'esame, quando sentii casualmente l'intro di 50 Special uscire a tutto volume dal finestrino della macchina che mi aveva affiancato. Al volante uno sconosciuto. Almeno quanto lo ero io per lui.
Nessuno, in quel periodo, conosceva il mio viso, e mi sarei potuto anche lanciare come un pazzo fuori dalla mia 500, aprire la sua portiera e gridargli addosso: «Sono io! Questa è la mia canzone!», che né lui, né nessun altro mi avrebbe creduto. Avevo i capelli decolorati, lo sguardo da ragazzino, gli occhi puliti e ingenui, gli incisivi storti.
Mi limitai a spiare con la coda dell'occhio la sua reazione.
Più la canzone andava avanti e più mi sembrava che lui si facesse trascinare dalla musica. Alzò ancora il volume, muovendo la testa a tempo fino alla fine del brano. Verde.
Ancora non ci credevo. Si può essere più felici di così, in una vita?
I professori ascoltarono la mia canzone. C'era chi batteva il tacco del piedino sotto il banco, chi faceva finta di cercare una penna e si sgranchiva le gambe imbarazzato, chi un po' si annoiava e pensava ad altro, chi era sinceramente meravigliato, e chi magari soltanto incuriosito dal fuori programma. Alla fine del pezzo ci fu un piccolo applauso, sorretto dai commenti positivi della professoressa di matematica che, in quell'occasione, si dimostrò un vero angelo.
Poi l'atmosfera cambiò e tutti i professori, anche quelli che fino a quel momento mi erano sembrati più rilassati, si fecero serissimi, imperturbabili. L'esame ebbe inizio.
Avevo scritto una tesina su Schopenhauer, il mio filosofo preferito. Il buon vecchio Arthur pensava che la musica fosse l'unica "vera filosofia", un linguaggio universale fatto di semplici suoni, in grado di esprimere l'intima essenza del mondo e della volontà dell'uomo. Più o meno era così. Un concetto che condividevo appieno: anzi, erano le stesse parole che gridavo ai quattro venti da almeno cinque anni! Era la spiegazione del perché avevo scelto la musica come compagna di vita, del perché mi ero fidanzato con lei prima che con Erica, del perché non l'avevo mai tradita.
Dopo che ebbi esposto la mia tesina i professori cominciarono uno alla volta a pormi domande, mettendomi alla prova su altri temi. La prof di chimica mi chiese notizie dei vulcani e dei terremoti. Ne sapevo il giusto. Quella di inglese volle parlare dei Beatles, in inglese, e fu più divertente. Quella di italiano cercò di farsi raccontare qualcosa di Pascoli. Pascoli non era il mio forte. «Posso parlarle di Leopardi, se vuole» suggerii ammiccando.
«Di Pascoli proprio nulla?»
«Meglio il buon vecchio Leopardi, si fidi» insistetti sottovoce.
«Avanti allora!»
Questa volta finalmente le parole non mi sfuggirono, e recitai anche i primi versi dell'Infinito con la mano sul cuore, come se mi fossi trovato alla finale dei Campionati del Mondo di calcio, e quello fosse il mio inno nazionale.
A fine interrogazione la professoressa di filosofia mi allungò la mano. «In bocca al lupo, Cesare!» Mi alzai.
Uscii dall'aula con un sorriso così grande che non mi stava in bocca: avrei voluto possedere guance più morbide ed elastiche, per permettere a quel sorriso di allargarsi all'infinito. «Sono liberooooo!» gridai rivolto verso il cielo, appena fuori. Mi venne in mente il primo giorno di scuola, le prime ore di quel momento così lontano. Ero, incredibilmente, arrivato al capolinea del mio viaggio: attraverso i banchi scarabocchiati, i libri sottolineati, le sveglie controvoglia, le fughe da scuola, le interrogazioni a sorpresa, gli intervalli allucinati, i compiti da finire.
Chiamai mia madre, ringraziandola per avermi tenuto in piedi nei momenti difficili. In fondo, tutti i nostri drammi e le nostre litigate erano stati appassionanti e, a modo loro, divertenti. Che noia sarebbe, per un uomo, una vita senza conflitti?
Chiamai anche mio padre, che si congratulò dicendomi: «Gli esami nella vita non finiscono mai, Cesare. Ma sei stato bravo, ne hai superati già tanti». Una frase del genere, detta da lui, valeva quanto mille abbracci sdolcinati. D'altra parte non mi sarebbe piaciuto avere un padre amico con il quale conversare beatamente di qualunque cosa. La distanza è tutto, in un rapporto!
Chiamai mio fratello, e Walter. E tutti gli amici, e le amiche. E chiamai Erica, e le dissi che l'amavo. «Ce l'ho fatta, amore!»
«Piccolo! Sei felice?»
Lo ero, sì, come mai prima d'allora.
Ero finalmente libero...

LE ALI SOTTO I PIEDI DI CESARE CREMONINI




Nessun commento: