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lunedì 24 ottobre 2011

Pocho, il piccolo cane terrore degli spacciatori


Jack Russel Terrier della polizia infallibile nel trovare la droga





Si chiama Pocho ed è un asso, come il campione del Napoli. Ma lui di zampe ne ha quattro. E sicuramente non gioca a pallone come Lavezzi. Ma nel suo ambito anche lui è un fuoriclasse dal grande fiuto, non quello per il gol, però: lui è infallibile nel trovare la droga. A Scampia, sebbene l'aspetto del piccolo cagnolino a priva vista non incuta alcun timore, è diventato un vero e proprio incubo per i pusher. 


Quando gli spacciatori vedono arrivare il piccolo Jack Russel Terrier, un nanerottolo alto poco più di due spanne, sanno che per loro scatteranno le manette. Giovedì scorso a Scampia, i poliziotti del commissariato si stavano scervellando all'interno della casa di due sospetti. Gli investigatori sapevano che lì c'era la droga, ma non riuscivano a trovarla. Poi la parola d'ordine: "Portate Pocho". Detto fatto e il cagnolino ha scoperto oltre 200 dosi di eroina e cocaina.
Fiuto infallibile, qualità che gli è quasi costata la vita: nel corso di un blitz a Pompei inalò lo stupefacente che aveva scoperto. Dopo mesi di cure specialistiche è tornato in servizio e durante l'ultima festa della polizia è stato lui a ritirare l'encomio che il questore Merolla ha voluto consegnare al reparto cinofili. Un riconoscimento più che meritato: il piccolo Jack Russel Terrier è utilissimo agli investigatori anche perché, grazie alla sua piccola taglia, riesce a intrufolarsi negli anfratti più angusti. Qualità che non possono vantare gli
altri 10 cani, sette pastori tedeschi e tre labrador (specializzati nello scovare esplosivi) che completano la squadra: tutti dotati di grandi capacità, ma impotenti quando bisogna infilarsi in spazi molto stretti.

Pocho ha due anni ed è entrato in polizia quasi per caso: il vecchio proprietario, un medico, lo regalò a un suo amico, che lavora proprio al reparto cinofili della questura, perché il figlio era allergico al pelo del cane. 



http://napoli.repubblica.it/di ANTONIO DI COSTANZO 

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