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mercoledì 29 dicembre 2010

Monique, l'atleta disabile che è tornata a camminare

Lascia la sedia a rotelle dopo tredici anni per merito di un incidente. Il fisiatra: «E' un vero e proprio mistero»

IVO ROMANO la stampa.it
Sogni che somigliano ai miracoli e sogni che non sono altro che traguardi raggiungibili. Sogni che valgono una vita e sogni che aiutano ad alleviare le sofferenze di una vita. E pazienza se i primi, avverandosi, elidono gli altri. Monique van der Vorst, olandese, era caduta in un incubo, ancora adolescente, appena 13enne. Un'operazione mal riuscita, complicazioni a catena, fino a perdere l'uso delle gambe. La sedia a rotelle, triste compagna di quotidiana esistenza, di lì alla fine dei propri giorni, secondo i medici. Chiuse in un cassetto le speranze coltivate da piccola, ecco dischiudersi altre aspettative, ben differenti, dapprima timide, poi cavalcate con insospettabile forza d'animo. Lo sport, una ragione di vita, il traino in grado di alleviare i dolori e riaccendere le luce negli occhi.

Era brava, nell'hockey su prato. Una promessa. Carriera chiusa, stroncata sul nascere. Senza per questo alzare bandiera bianca, in segno di resa incondizionata. «Presto ero tornata indipendente - racconta ora - malgrado le gambe immobilizzate: potevo muovermi, guidare, volare. E fare sport». Dall'hockey all'handbike, passo lungo, ma non così tanto da scoraggiarla. Perché se non poteva più usare le gambe non le restava che puntare sulla forza della braccia.

Ex promessa, nell'hockey su prato. Presto una certezze, nella nuova disciplina. Fino a centrare risultati prestigiosi. Tre campionati del mondo vinti, il record iridato della maratona di handcycling in suo possesso da tempo, il campionato del mondo di Ironman, il titolo di Atleta disabile dell'anno nel 2009: palmarés coi fiocchi. Senza dimenticare il curriculum paralimpico: un doppio argento portato a casa da Pechino, con l'oro nella 40 chilometri sfuggitole per 13 centesimi. Avrebbe voluto riprovarci, a Londra 2012, per provare l'ebbrezza del gradino più alto del podio paralimpico. Sogno spezzato, questo. Perché sogno piccolo, cancellato da uno più grande, di quelli che somigliano ai miracoli e valgono una vita. Un incidente, l'ennesimo. E la strada della speranza s'è messa in discesa, a partire dalla scorsa estate. Uno scontro fortuito con un ciclista, la rovinosa caduta, la sensibilità nelle gambe che sembra tornare pian piano: «Una sensazione unica: impossibile spiegare come si possa sentire qualcosa che non s'era mai sentito prima». Faticose sedute di fisioterapia, condite da massicce dosi di forza di volontà. Fino a rimettersi in piedi, come una volta: 13 anni per cadere in un incubo, altri 13 (ne ha 26) per uscirne. Come sia stato possibile, non lo sanno neppure gli specialisti: «È un mistero più unico che raro - spiega il dottor Valter Santilli, ordinario di fisiatria a La Sapienza di Roma - perché il recupero, anche parziale, se arriva, c'è nelle prime settimane dopo il trauma e comunque nei primi due anni. È improbabile che abbia avuto un ruolo il nuovo incidente: questa è una storia unica al mondo». Un miracolo, forse.

Che ha voluto condividere con il mondo intero. Ha preso in prestito da Nietzsche una frase che calza a pennello («Ciò che non mi uccide mi rende più forte»), l'ha impressa sulla home-page del suo sito. Dove, in poche righe, spiega la parabola della sua esistenza: «Sono di nuovo in piedi, è una nuova sfida. Non so quando o dove finirà, ma voglio farcela e voglio tornare a correre». Non finirà a Londra, perché il sogno più grande ha spezzato quello più piccolo. Ne resta un altro: inseguire nuovi traguardi sportivi, quale sia la disciplina.

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