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giovedì 29 aprile 2010

L' ANGOLO DELLA POSTA - pubblichiamo una mail di ALESSANDRO LAURO (Sorrento di Tutti)


ACQUA BENE COMUNE IO CI METTO LA FIRMA
Ragazzi vi giro un pezzo di un articolo molto interessante di Christian Grassi.
Firmare è importante e sapere cosa si fira lo è ancora di più. Le idee senza gambe fanno poca strada se poi ci mettiamo anche il cuore ed una testa funzionante allora davvero non hanno confini.
Coraggio vi aspettiamo sabato e domenica in piazza Lauro dalle 9 alle 19

temi trattati
1) il culmine della questione: il Decreto Ronchi del 2009
2) domande e luoghi comuni in tema di acqua pubblica o privata)
3) i quesiti referendari del Forum

1) Cosa succede con il Decreto Ronchi del 2009?
Con il decreto Ronchi del 2009 tutti i servizi pubblici locali come l’acqua vengono definitivamente ceduti al mercato e sottoposti alle regole del profitto, espropriando i cittadini di quei beni comuni faticosamente realizzati negli anni con i soldi delle tasse.

Noi abbiamo pagato gli acquedotti e qualche privato ne godrà i profitti.
È l’atto conclusivo di un processo che ha avuto per protagonisti governi di ogni colore, sia su scala nazionale sia locale.

La nuova legislazione, imponendo la cessione forzata della gestione del patrimonio pubblico e l’ingresso sostanzialmente obbligatorio dei privati nella gestione dei servizi, renderà obbligatoria la privatizzazione dell’acqua.

2) I luoghi comuni e i sostenitori del Decreto Ronchi dicono:

a) che non si tratta di una privatizzazione ma di una liberalizzazione;
Si parla di privatizzazione e non di liberalizzazione poiché il servizio idrico, per definizione, è un monopolio naturale. Non può infatti esistere una competizione fra più fornitori in concorrenza poiché vi è un solo acquedotto. Non una liberalizzazione con tanti gestori in concorrenza ma una privatizzazione con un solo monopolista privato. Da monopolio pubblico a servizio della collettività a monopolio privato per l’interesse di pochi. Ma a questo punto, se di monopolio si tratta, è ovvio che il servizio debba rimanere pubblico.

b) che comunque l’acqua e le infrastrutture rimangono pubbliche mentre è la sola gestione del servizio a non esserlo più;
Se è vero che l’acqua e le infrastrutture restano del demanio da un punto di vista formale (si parla appunto di “proprietà formale”), all’atto pratico la “proprietà reale” è di colui che gestisce direttamente il bene, che eroga il servizio e che ne incassa gli utili per gli anni a venire.
La proprietà reale si concretizza anche a causa della mancanza di trasparenza nei rapporti pubblico-privato, la debolezza dei controlli e l’impossibilità dell’ente pubblico di incidere sulla governance della società private. Il controllo pubblico è infatti limitato o nullo quando ci si trova dinanzi a forme giuridiche di diritto privato regolate dal diritto societario.

Conta poco affermare che l’acqua è pubblica quando di fatto, per sempre, ogni relazione che avremo, rapporto economico, reclamo, disservizio, saranno una questione privata regolata da un contratto di servizio fra il cittadino ed una società quotata in borsa, probabilmente neppure italiana. Non potremo più decidere, né cambiare fornitore né lamentarci in Comune o fare valere il nostro voto.

Un bene è pubblico solo se è gestito da un soggetto formalmente e sostanzialmente pubblico, nell’interesse esclusivo della collettività.

c) che è l’Unione Europea che ce lo impone;
L’Unione Europea non ci impone assolutamente nulla. Essa stabilisce infatti che i servizi essenziali privi di rilevanza economica, identificati dai singoli Stati, possono essere sottratti al mercato.
Spetta ai singoli Stati definire quali sono i servizi essenziali privi di rilevanza economica.
Tradotto: è l’Italia stessa che si è imposta la privatizzazione dell’acqua.

A riprova che l’Unione europea non impone nulla, il fatto che nel 2010 Parigi, dopo 25 anni di gestione privata, è tornata alla gestione pubblica.

d) che l’ingresso dei privati migliorerà la gestione e i servizi ed aumenteranno gli investimenti;
in Italia (ma anche all’estero), l’ingresso dei privati ha generalmente portato ad un notevole aumento delle tariffe (anche del 400%), ma senza un miglioramento del servizio che anzi, spesso è peggiorato, ma soprattutto ad un netta riduzione degli investimenti di ripristino e modernizzazione delle infrastrutture. Da 3 miliardi a 700 mila euro.

Le diverse esperienze privatistiche di gestione dell’acqua hanno quindi dimostrato come le finalità delle spa siano incompatibili con la gestione dei beni comuni. Il conseguimento del profitto si basa infatti sulla contrazione dei costi, sull’aumento dei ricavi, e sull’imputazione degli eventuali investimenti a carico della tariffa. Ciò può significare che alla scadenza delle concessione, le SpA avranno tratto ingenti profitti senza avere investito adeguatamente sulle reti e a noi cittadini saranno restituiti degli acquedotti fatiscenti da riparare con le nostre tasse.

e) che la gestione pubblica è sprecona ed inefficiente, caratterizzata dal clientelismo.
Se è verosimile che in molti casi la gestione pubblica dell’acqua è inefficiente e sprecona, la soluzione non è regalare ad un privato ciò che è di tutti.
A partire dal presupposto che una gestione pubblica è per definizione orientata all’interesse della collettività mentre una gestione privata deve fare gli interessi dei soci azionisti, ciò che dobbiamo pretendere sono degli strumenti atti a migliorare l’opera degli enti di diritto pubblico e la riduzione degli sprechi. E questo lo possiamo fare ad esempio tramite la leva elettorale, ma solo a condizione che la gestione resti in mano pubblica.

La questione è chi e come avviene la gestione ma soprattutto con quali fini. Una spa ha l’obbligo di chiudere il bilancio in attivo, deve guadagnare. L’ente pubblico punta invece al pareggio e on ha fini di lucro. Il privato quando investe del capitale deve farlo rientrare nel più breve tempo possibile e soprattutto lo deve fare fruttare. L’ente non ha il problema di fare fruttare il capitale ne di farlo rientrare.
Gli investimenti delle spa sono caricati sulla tariffa mentre l’ente preleva dalla fiscalità generale.

3) Cosa chiedono i 3 referendum?
Referendum 1: abrogazione dell’art. 23 bis (dodici commi) della Legge n. 133/2008 , relativo alla privatizzazione dei servizi pubblici di rilevanza economica, ovvero fermare la privatizzazione dell’acqua.
Propone di abrogare la normativa che stabilisce che entro il 2011 la gestione del servizio idrico debba essere obbligatoriamente affidata: o a soggetti privati attraverso gara o a società a capitale misto (pubblico-privato), all’interno delle quali il privato detenga almeno il 40% e la gestione diretta del servizio idrico (art. 5 legge Ronchi). Il pubblico, per statuto, resta vincolato alle scelte del privato.
La norma da abrogare impone inoltre che per le società miste collocate in Borsa, l’Ente Pubblico non possa detenere la maggioranza delle quote ma anzi, debba scendere al 30%.

Referendum 2: abrogazione dell’art. 150 (quattro commi) del D. Lgs. n. 152/2006 (c.d. Codice dell’Ambiente), relativo ala scelta della forma di gestione e procedure di affidamento, segnatamente al servizio idrico integrato, ovvero, aprire la strada della ripubblicizzazione.
Propone di abrogare l’articolo di legge che definisce come uniche modalità di affidamento del servizio idrico la gara o la gestione attraverso Società per Azioni, escludendo la gestione diretta ad opera degli Enti di Diritto Pubblico (salvo casi eccezionali).

L’abrogazione di questo articolo consentirebbe l’affidamento della gestione del servizio idrico anche agli Enti di Diritto Pubblico, favorendo di fatto la ripubblicizzazione con la partecipazione diretta dei cittadini e delle comunità locali.

Referendum 3: abrogazione dell’’art. 154 del Decreto Legislativo n. 152/2006 (c.d. Codice dell’Ambiente), limitatamente a quella parte del comma 1 che dispone che la tariffa per il servizio idrico è determinata tenendo conto dell’ “adeguatezza della remunerazione del capitale investito”, ovvero eliminare i profitti dal bene comune acqua.

Si tratta di abrogare la parte di normativa che concede ai gestori del servizio idrico un profitto garantito. La legge prevede infatti che i gestori addizionino almeno un 7% all’importo delle bollette quale remunerazione del capitale investito. Ossia, qualsiasi cosa faccia il gestore, questi ha la garanzia di un incasso certo.
I cittadini da una parte vengono privati del bene comune acqua e dall’altra sono obbligati, con uma maggiorazione della bolletta, a garantire un profitto ai privati.
Abrogando questa norma tariffaria, verrebbe meno uno dei fattori di richiamo delle società private, ossia la garanzia di un introito certo.

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