giovedì 15 luglio 2010

L'artista operaio Cantore di lotte e tammorre che incontrò anche Fellini

Ho cominciato a fare il cantore di mestiere nel '96», racconta Colasurdo, icona della musica popolare da oltre trent'anni, personaggio che segue un percorso artistico pronto a sopravvivere a mode e tendenze. Grazie a una voce nata sul confine tra i campi di Pomigliano e le sirene delle fabbriche, Colasurdo racconta una storia che non c'è più, la storia di una trasformazione sociale destinata a infrangersi sul referendum Fiat dello scorso giugno. Una voce senza tempo, legata alla cultura orale e contadina, che non smette di affabulare il pubblico in piazze e teatri non solo italiani. Sempre accompagnata dal suono della tammorra. «Il tamburo è il più grande strumento di comunicazione che hanno i popoli», continua il cantore del Vesuvio, una lunga gavetta con 'E Zezi, poi a una carriera solista che dalla musica lo ha portato anche al teatro con "L'Histoire du soldat"e al cinema con "L'intervista" di Fellini. Fino all'incontro con Peter Gabriel e all'incisione del disco per la Real World "Lost Souls- Aneme Perze", insieme agli Spaccanapoli. «Negli anni '70, dopo un periodo di lotte, riuscii ad entrare in fabbrica. Ma non alla catena di montaggio, ero addetto alle pulizie all'Alenia di Pomigliano d'Arco...», racconta l'artista nella sua abitazione di Pomigliano d'Arco, ricordando ancora il suono della sirena per il turno delle sei. «E pensare che prima da noi la sveglia la facevano i galli... Pulivamo le aree industriali, si parlava con gli operai, si condividevano i problemi, era la stagione delle lotte nelle fabbriche». Un impegno che continuava anche una volta finito il lavoro. «Ci riunivamo in quella che affettuosamente chiamavamo 'a casarella, una piccola abitazione della periferia, vicino alla campagna». Ci andavano contadini, operai, artisti. Marcello ne ricorda alcuni. Tonino 'o stock, Angelo De Falco, Matteo D'Onofrio, Miciariello, Felice Fiorillo, Enzo La Gatta. «È lì che sono nati i Zezi. Cantavamo la nostra storia, quello che vivevamo sulla nostra pelle, lo sfruttamento, lo sciopero dei contratti...». Argomenti che trent'anni fa finivano nelle canzoni, come nella celebre "Tammurriata dell'Alfa Sud" dei Zezi. «C'era un poeta operaio, Salvatore Alfuso, detto Scià Scià, che ci raccontava della storia di un contadino che divenne proletario. Espropriato della sua terra, cominciò a fare i conti con i ritmi della fabbrica. Facevamo musica popolare, con i nostri canti a fronna, memoria di una civiltà contadina mai morta. Si cantava e molti operai rispondevano, proprio come facevano una volta i contadini. Quasi alla maniera blues. È un canto legato alla scala araba e orientale. Possiamo dire che noi siamo multietnici da sempre». Un canto dalla storia millenaria che negli anni Settanta si è trasformato in canto di lotta. Lasciata la fabbrica, si era pronti a salire sui palchi. «Facevamo concerti proletari. Rispetto agli altri compagni ci sentivamo fortunati, avevamo la possibilità di cantare la nostra rabbia e di sensibilizzare il pubblico». La notorietà del collettivo operaio che coniuga il folk con l'impegno arriva anche fuori confine. Per il viaggio in America con le Nacchere Rosse, invece, il problema fu quello del visto al Consolato. «Gli americani si impressionarono per il nome, Nacchere Rosse, un colore che associavano alla fede comunista. E così ci fecero il terzo grado. Chiamammo l'interprete e gli spiegammo che ci chiamavamo così perché dalle nostri parti c'era la coltivazione del pomodoro...E ci fecero passare». Ma nel '96 arriva la lettera di licenziamento e Colasurdo sceglie di continuare con la musica e con il teatro. Fino a quando non viene chiamato da Federico Fellini. «Marcellone!, mi chiamava così. Era il film "L'intervista" e io interpretavo il ruolo di un marajà... «. Un incontro nato per caso. «Fellini si ritrovò tra le mani una mia fotografia, un primo piano, io ero truccato da donna, da zeza, mi disse che lui amava trovare personaggi insoliti, li immaginava, li sognava. Finii anche in una sua mostra, nel suo catalogo dei sogni». La disarmante semplicità di Marcello Colasurdo rimanda ad un altro aneddoto, raccontato dagli amici musicisti e da lui stesso ricostruito, allorché scambiò Peter Gabriel per uno dello staff inglese negli studi di registrazione della Real World a Bath, in Inghilterra. «Facemmo un concerto con gli Spaccanapoli e la sera vedevo una persona che si aggirava nel camerino con una piccola telecamera. Una volta si avvicinò, mi prese la mano e se la mise sul cuore. Pensavo fosse un ammiratoreo uno del servizio d'ordine. Poi il produttore mi fece un segno disperato, e quando capii non potei che scusarmi genuflettendomi. Un grande artista, semplice e straordinario». Dopo qualche anno la soddisfazione di aprire alcuni concerti italiani di Peter Gabriel, compreso quello all'Arena Flegrea di alcuni anni fa. «Quando la notte torno a casa dopo il concerto, mi sento bene, avverto una sensazione di pace, so di aver fatto qualcosa per la gente». Si gira Colasurdo, come a ricercare nell'aria un tempo perduto. Tira un sospiro e continua pacatamente. «Io sono nativo di Campobasso, sono figlio di una ragazza madre, arrivai a Pomigliano a dodici anni e non ho mai conosciuto mio padre. Quello adottivo sì. La musica è stata la mia grande fortuna». Fra alti e bassi di una carriera che non è paragonabile a quella di una popstar, in termini di dischi vendutio di biglietti staccati al botteghino. Ma quando si presentò l'occasione di incidere per la Real World, Marcello Colasurdo non ebbe esitazioni. Era l'occasione della vita. Che però comportò la scissione dai Zezi. «Mi piace ricordare i momenti belli, come i concerti di solidarietà», conclude il cantore del Vesuvio. «Una volta ci trovammo a un concerto per i bambini dell'Africa e capii che quando suoni per queste persone non c'è cachet che tenga... Meglio una tammurriata che una guerra!».
REPUBBLCA.IT

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